lunedì 15 aprile 2013

La Storia del Popolo Rom




La Storia del Popolo Rom



Prima tappa: la Persia.

Nel 1011 il poeta persiano Fidursi terminò il "Libro dei Re": in esso si racconta l'arrivo di diecimila 'Luri', accolti dal re Behram-gor, che li chiese a suo suocero, il re indiano Shengùl:

            "O re cui giunge la preghiera altrui,
             Di girovaghi musici trascegli
             Uomini e donne, a diecimila, tali
             Che cavalcando battere in cadenza
             Sappian liuti, e a me li invia ben tosto
             Perché la voglia mia per questa gente,
             Celebre tanto, satisfatta sia".         (trad. Italo Pizzi)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la testimonianza  scritta  dell'arrivo  in  Persia  di  un  popolo   nomade proveniente dall'India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.

Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua zingara,  a  cominciare  dal  termine  'darav'  (mare),  derivato  dal persiano 'darya'. E' incerta la  permanenza di popoli zingari in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l'Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono elementi linguistici  a svelarci  il percorso degli Zigani: 'grast' (cavallo, termine armeno), 'vurdon' (carro, termine osseto).

I gruppi zingari che sono rimasti in Armenia e nei paesi  transcaucasici si chiamano 'Lom': sono in genere  cristiani o musulmani. Ma la  maggior parte della popolazione  proseguì il viaggio,  probabilmente intorno  al secolo XI, al tempo della guerra tra l'esercito di Bisanzio e quello dei Turchi Selgiuchidi.


              Il viaggio prosegue nelle terre di Bisanzio.

Tra il 1100 ed il 1300 i  popoli nomadi entrano nelle terre  dell'Impero bizantino. Qui viene loro attribuito il nome della setta manichea  degli Atsingani, da cui deriva il nome che ancora oggi li contraddistingue. Da questo  periodo iniziano  le  testimonianze scritte,  che  segnalano presenze zingare nelle isole greche ed in Medio Oriente.

La città di Modone (oggi Methoni), situata  a metà strada tra Venezia  e la Terra Santa, era uno dei principali centri zingari. Le  testimonianze sono numerose, anche perché la città era uno degli scali dei viaggiatori diretti a Gerusalemme.

Prima della conquista turca, gli Zingari erano numerosi anche nei  paesi vicini alla Grecia: alla metà  del '300, erano molti  i 'Cingarije'  del regno di Serbia, dove vivevano facendo i maniscalchi.

Numerosi Zingari vivevano in Valacchia, prevalentemente in condizioni di schiavitù: nel 1386, Mircea I,  voivoda di Valacchia, confermò la  dona- zione (fatta nel 1370) di quaranta famiglie Atsigane al monastero di  S. Antonio. La situazione in Moldavia era simile: l'origine della schiavitù è incerta: si può ipotizzare l'arrivo degli Zigani nel 1200, come  prigionieri di guerra (e quindi  come schiavi) degli  invasori Tartari.  In seguito, avrebbero mantenuto la condizione servile.

Lo storico rumeno Panaitescu ipotizza  un motivo d'ordine economico:  in seguito alle Crociate, l'area del Danubio era diventata  particolarmente prospera grazie ai commerci. La 'divisione del lavoro' di quella società aveva reso indispensabili  gli Zingari,  in quanto  artigiani  (fabbri, costruttori di laterizi)  di valore.  Ma, poiché rifuggivano  un  impegno prolungato e  si spostavano  spesso,  furono resi  schiavi  e  costretti all'immobilismo nei domini di principi  e signori. Vi erano inoltre  gli schiavi dello Stato  (Zingari della  Corona) e del  clero  (metropolita, vescovi, monasteri). Gli Zingari di  Romania restarono schiavi fino  alla metà dell'800.

Nelle terre greche, gli Zingari acquisirono la parola 'drom' (strada, in greco dromos'), mentre gli Zingari  siriani conservarono il termine  di origine indiana. 'Beng'  (rospo,  rana)  è il  termine  zigano  che  si riferisce al diavolo, derivato (secondo lo ziganologo greco Paspati)  da un'immagine tipica delle chiese bizantine:  San Giorgio che trafigge  il demonio, raffigurato come un dragone.


                          Arrivo in Occidente.

All'inizio del 1300, prosegue la  marcia plurisecolare degli Zingari.  I popoli moldavi  e valacchi  desideravano  sfuggire alla  schiavitù,  gli abitanti delle terre bizantine fuggirono all'invasione turca, che arrivò alle porte di Costantinopoli, e in Serbia e in Bulgaria.

Non fu un esodo di massa, solo alcuni  si spostarono, ed ancora oggi  la maggioranza dei popoli  zingari vive nell'Europa  orientale. Il  cammino delle carovane non  era  facile: spesso  raccontavano alle  autorità  di essere pagani, provenienti dall'Egitto, convertiti al cristianesimo, poi ancora pagani ed infine riconvertiti ed in pellegrinaggio, per  scontare le colpe commesse. Nel Medioevo ogni  buon cristiano aveva il dovere  di dare aiuto ed assistenza ai pellegrini, e cosi gli Zingari furono  molto facilitati. Inoltre, la  leggenda  che raccontavano  aveva un  fondo  di verità, poiché  nei paesi  bizantini,  furono spesso  costretti  a  convertirsi al Cristianesimo o all'Islam.

Un gruppo orientale riuscì persino ad ottenere lettere di protezione per duchi e  vescovi, scritte  da  Sigismondo, re  di Boemia  e  d'Ungheria.

Grazie a questi espedienti, gli Zingari percorrono la Germania (Amburgo, Lubecca, Rostock,...).  Alcuni  scendono verso  il  sud,  verso  Lipsia, mentre altri gruppi giungono in Svizzera.

I cronisti dell'epoca  (siamo all'inizio  del '400) parlano  di  vestiti miserabili, ma di  abitudini sfarzose.  In Germania gli  Zingari  furono imitati da gruppi di persone di lingua germanica, che adottarono la vita nomade ed i mestieri dei nomadi: gli Jenische.


               In Francia e in Italia, di fronte al Papa.

L'arrivo dei gruppi  zingari in  Francia  è segnalato  nel 1419.  Il  22 agosto, un gruppo arriva nella  città di Catillon-en-Dombes.  Presentano lettere al duca di Savoia ed all'imperatore. L'incontro con i  cittadini è cordiale, basato sullo scambio  di doni. In altre  città c'è  maggiore diffidenza, che però viene superata.  La città di Tournai,  appartenente al regno di Francia, elargì dodici monete  d'oro, più pane e birra.  Gli 'Egiziani'  (cosi  venivano  chiamati)  tornarono  anche  la  primavera seguente, suscitando la stessa curiosità  nei cittadini, che  ammiravano l'abilità dei cavalieri e degli  stessi cavalli, e si  "facevano dire  la buona ventura".

Talvolta le lettere di protezione di principi e duchi non bastavano.  Fu allora deciso di ottenere una lettera di protezione universale.  L'unica persona che poteva scriverla era il Papa. Nel luglio del 1422 un  gruppo di Zingari parte per Roma, ad incontrare Sua Santità Martino V.

Passano per Bologna e Forlì, dove  raccontano di compiere un viaggio  di penitenza, per tornare "nella retta fede".

Negli archivi vaticani  non  c'è traccia  di questo  incontro,  tuttavia questo periodo presenta molte altre  lacune di documentazione. Gli  Zingari utilizzarono per oltre un secolo il documento pontificio, che  permetteva "privilegi del papa e  dell'imperatore, per cui potevano  andare per il mondo senza pagare alcun pedaggio o gabella". Il testo  integrale della lettera di  Martino V  è conservato  in una  traduzione  francese, proveniente dalla Lorena:

            "Tutte le autorità ecclesiastiche e civili sono richieste di
lasciar passare liberamente nel mondo, per terra e per mare, il duca Andrea del Piccolo Egitto ['capo' della spedizione] e tutta la sua truppa, con i loro cavalli e i loro beni,  senza pagare alcuna tassa né  diritto di passaggio, e sono promesse  grazie eccezionali di assoluzione (è  rimessa la metà dei  peccati) ai  fedeli che si  mostreranno generosi  con quei pellegrini".

Un errore  di un  anno  nella datazione  e la  strana  formula  nell'as- soluzione fanno  dubitare dell'autenticità  del  documento.  Presumibil- mente, come  si evince  da  numerose testimonianze,  Martino  V  incontrò realmente il "duca del Piccolo Egitto" ed i suoi e forse rilasciò  anche la lettera, che poi fu  spedita ai  vari gruppi e  modificata a  seconda delle esigenze dei vari portatori.  Un altro esempio della capacità  dei popoli Zigani di utilizzare le  debolezze dei gagè (esemplare il  riferimento alla "metà dei peccati" condonati  a chi si mostra generoso  nei confronti di "questi pellegrini").

Dopo il viaggio  in Italia,  molti tornarono indietro,  altri  rimasero. Probabilmente, i  Rom dell'Italia  meridionale provengono  invece  dalle terre dell'Impero bizantino,  arrivati via  mare prima del  viaggio  del duca Andrea.


              In Spagna, in Gran Bretagna, in Scandinavia.

Proseguiamo il  nostro  viaggio:  pochi  anni dopo  il  loro  arrivo  in Francia, alcuni Zingari continuano per la Spagna. Probabilmente, nessuno fra i  Gitani (Zigani  spagnoli)  proviene dall'Africa:  l'analisi  linguistica evidenzia molti termini provenienti  dal greco, inoltre ci  sono prove che avessero già attraversato la Francia: in particolare, facevano appello alla protezione del Papa.

Gli Zingari passano dall'Aragona alla Catalogna fino all'Andalusia. L'11 giugno 1447 sono a Barcellona. Nelle  città di Spagna i 'capi'  zingari, che si qualificano come "Conti  del Piccolo  Egitto" sono  accolti  con tutti gli onori, e ricevono doni in abbondanza.

Solo all'inizio del  '500 ci  sono notizie di  "Ciganos" in  Portogallo. Nello stesso periodo sbarcano in Inghilterra ed arrivano fino in Scozia. In queste terre, non suscitarono grande sorpresa, perché già  esistevano i "Tinkers", persone  con stili  di vita ed  abitudini simili  a  quelli zingari, che parlavano  lo 'shelta',  una lingua  rimasta a  lungo  sconosciuta ed imparentata col gaelico e con l'antica lingua irlandese.

Nella prima metà del '600, i Gypsies (in Gran Bretagna assunsero  questo nome, poiché dicevano di venire dall'Egitto) arrivarono in Irlanda,  per sfuggire al reclutamento militare avviato in Inghilterra.

La storia dell'arrivo in Scandinavia ha i caratteri della leggenda:  nel 1505, una nave scozzese partì per la Danimarca. A bordo c'era un  gruppo di Zingari, con a capo Antonio  Gagino, conte del  Piccolo Egitto,  che aveva ricevuto dal  re Giacomo  IV una  lettera per  il re  Giovanni  di Danimarca.  Successivamente,  nel 1512,  il  conte  arrivò  in  Svezia. L'arrivo degli Zingari in Norvegia è molto più triste: nel 1544,  alcuni Gypsies arrestati in  Inghilterra, furono  deportati per ordine del  re britannico. Dalla  Germania,  passando per  lo  Jutland,  altri  Zingari arrivarono in Scandinavia, dove si diffusero fino alla Finlandia.


                         In Africa, in America.

A partire dal 1600 gli Zingari subiscono la deportazione nelle  colonie: i portoghesi li inviano nei loro  domini di Capo Verde, dell'India,  del Brasile, dove vengono chiamati 'ciganos'.

Nel 1775, il re spagnolo Ferdinando VI inviò i Gitani che rifiutavano il servizio militare in America. Durante  il XIX secolo, durante le  guerre di liberazione dell'America del  Sud, inizia  l'emigrazione  volontaria degli Zigani nel  nuovo continente:  sono i 'Chiganeros',  che vanno  in Argentina ed in Venezuela. Tra  le fine del '600 e  l'inizio del  '700, alcune compagnie  inglesi e  scozzesi  praticavano la  deportazione  dei Gypsies, per farli  lavorare nelle  piantagioni della Giamaica  o della Virginia.

Alcuni Zingari andarono nelle colonie  volontariamente, reclutati  dalla Compagnia delle Indie; altri furono  inviati forzatamente da Luigi  XIV, alla fine del '600; altre  deportazioni furono ipotizzate o  minacciate, ma apparvero disumane e vi si rinunciò.

Nel 1802 il prefetto dei Bassi Pirenei, d'accordo col governo di Parigi, fece arrestare tutti  gli Zingari  dei Paesi Baschi,  per deportarli  in Luisiana. Il progetto fu impedito dalla guerra  con l'Inghilterra,  che riprese subito dopo.

Forse sogno di vivere… Ceija Stojka e l’inferno di Bergen-Belsen.


Scritto da  – lunedì, 15 aprile 2013 – 10:00

Forse sogno di vivere… Ceija Stojka e l’inferno di Bergen-Belsen Oggi è il 15 aprile 2013, un giorno di primavera come altri, ma noi di GraphoMania vogliamo ricordare un 15 aprile del passato, per l’esattezza quello del 1945, giorno in cui il filo spinato del campo di Bergen-Belsen è stato sfondato da un carro armato guidato da un soldato inglese. C’era il sole durante la liberazione di tutte quelle anime? Si avvertiva anche laggiù, nel lager, la primavera? E cos’altro si avvertiva?

Ce lo ha raccontato una delle poche sopravvissute al genocidio degli zingari, Ceija Stojka (che quel carro armato lo ha visto con i suoi atterriti occhi di undicenne), nel libro Forse sogno di vivere, edito da Giuntina nel 2007: schiava innocente che non rappresenta il singolo ma una umanità intera, vittima del Porrajmos – Olocausto in lingua rom – in età adulta lascia che i ricordi si riversino sulla carta e giungano a noi perché niente sia dimenticato, perché è giusto così. Ma, leggendo questo libro, quanto vorremmo che almeno lei avesse invece dimenticato gli orrori che racconta?
Trasferita da Auschwitz nel campo di Bergen-Belsen, la bambina rom Ceija visse per quattro mesi assieme a sua madre e altri parenti in condizioni indescrivibili, tra montagne di cadaveri in cui intrufolarsi per non sentire freddo, cibandosi di stracci e lacci di scarpe – quando la sorte era buona – altrimenti di terra che, se scavavi, aveva un sapore migliore.
Mi è doveroso dirvi che questa lettura vi farà star male e non mi vergogno di ammettere la mia commozione in certi passaggi, talmente duri da richiedere una pausa. Ma non duri perché raccontati con rabbia, dolore, rancore, odio, no: duri da accettare, da sopportare, da assimilare come reali, seppur raccontati con semplicità e privi di quell’odio feroce che ci si aspetterebbe da una vittima di tali atrocità. Invece questa straordinaria donna, della quale già vi abbiamo parlato in occasione della sua scomparsa (gennaio 2013), non maledice, ma si domanda come ciò sia potuto accadere. E ci dice che potrebbe succedere ancora. Come hanno potuto, tanti uomini, mettersi così ciecamente nelle mani di un solo uomo?
Io, leggendo questo e i tanti altri libri sull’argomento, sgomenta mi chiedo come sia possibile che l’essere umano, se legittimato a farlo, mostri tanta crudeltà e sadismo. È proprio questo che mi fa dar ragione all’autrice quando dice che potrebbe accadere ancora. Rendiamocene conto.
Ceija Stojka ha passato il resto della sua vita, naturalmente da donna libera, nella città di Vienna, dove – poetessa, scrittrice, musicista, pittrice – ci ha lasciato testimonianze importanti del suo vissuto ma soprattutto della sua grande umanità, che traspare fin dalle sue testimonianze di adolescente che – avutane l’occasione – non riesce a sollevare il bastone contro il suo aguzzino.
 
Ceija Stojka Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen-BelsenVivere, vivere a ogni costo: è questo che ci fa trovare la forza per andare avanti anche quando sarebbe un atto di pietà verso noi stessi fermarsi?
Là dentro si verifica in primo luogo un crac. Poi nella testa e nel corpo, cancelli tutte le possibilità, ogni brama e desiderio. Mangi solo quello che trovi. Ecco che c’era un pezzo di tessuto. L’ho masticato fino a quando non è diventato come una balla di paglia e quindi l’ho ingoiato. Un essere umano è davvero molto tenace.
E ancora:
Se ti trovi in pericolo non avrai mai paura per te, avrai paura per il tuo bambino o per tua madre che è insieme a te. Questo ci ha dato la forza e la volontà di resistere.
Leggetelo: il male che ci farà questa lettura non potrà che educarci a far sì che non possa accadere mai più.
Ceija Stojka
Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen-Belsen
traduzione di Enrico Paventi
La Giuntina, 2007
ISBN 9788880572763
pp 82, euro 10

Pubblicato da GraphoMania: 
http://blog.graphe.it/2013/04/15/forse-sogno-di-vivere-ceija-stojka-e-linferno-di-bergen-belsen

sabato 13 aprile 2013

Giornata internazionale dei Rom

"Dobbiamo fare in modo che questa comunità possa partecipare pienamente alla vita della loro città e regioni"

Council of Europe/Nikolai Atefie
congres


In vista della Giornata internazionale dei Rom, l'8 aprile, che porta l'attenzione alle sfide rom continuano ad affrontare in Europa, Herwig van Staa, presidente del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d'Europa, ha sottolineato la responsabilità delle autorità locali e regionali a fornire politiche per i Rom inclusive. "Poiché le autorità locali e regionali, ci sono anche la responsabilità di garantire che i diritti umani universali di tutti i cittadini, inclusi i Rom, sono ugualmente rispettati, e che questa comunità possa partecipare pienamente alla vita della loro città e regioni. L'Alleanza delle Città e Regioni per l'inclusione dei Rom, che è stato lanciato il 20 marzo 2013, è stato istituito a questo scopo ", ha dichiarato.

giovedì 11 aprile 2013

Migliaia di rom cacciati dalle loro case


FRANCIA


Una famiglia rom, sgomberata da un campo alla periferia di Lione, si prepara a passare la notte davanti al tribunale a cui ha chiesto di trovare un’abitazione alternativa, il 3 aprile. (Jeff Pachoud, Afp)
Nei primi tre mesi del 2013 in Francia almeno quattromila rom sono stati costretti a lasciare il luogo dove abitavano.
Secondo un rapporto dell’Associazione europea per la difesa dei diritti umani, delle 4.152 persone (un quinto della popolazione rom presente in Francia) sgomberate dal 1 gennaio al 31 marzo 2013, 2.873 sono state spostate con la forza dalla polizia, 272 sono state rimpatriate e 1.007 si sono dovute spostare in seguito a un incendio delle loro abitazioni o a un’aggressione.
Il governo di François Hollande si conferma uno dei più attivi nelle operazioni di sgombero, denunciano alcune associazioni.
    Pubblicato da http://www.internazionale.it/ Giovedì 11 Aprile 2013 aggiornato alle 18.40

mercoledì 10 aprile 2013

Rom e Sinti, Agnone ricorda gli orrori del passato

logo


Scoperta una targa commemorativa sulla facciata dell'ex campo di concentramento di San Berardino


AGNONE. Alosetto, Brajdic, Campos, Ciarelli, Di Rocco, Goman, Gus, Halderas, Hudorovich, Held, Hujer, Karis, Locato, Mugizzi, Nicolic, Rach, Reinhardt, Rossetto, Suffer, Waeldo.
Sono i nomi delle 148 famiglie Rom e Sinti internate nel campo di concentramento di San Berardino (oggi divenuto una casa di riposo) tra il 1940 e il 1943, quando in Italia vigevano le leggi razziali. Nel giorno dell’Olocausto e della giornata internazionale dei Rom e dei Sinti, il Comune di Agnone, in collaborazione con la ‘Federazione Rom e Sinti insieme’ e l’associazione ‘Sucar Drom’, ha inteso ricordare con una targa commemorativa le vittime del Porrajmos. La targa è stata realizzata all’interno del progetto ‘Memors’ con il supporto del programma “Europa per i cittadini” dell’Unione Europea.
“Gli orrori e le tragedie del passato non si cancellano, ma devono servire da monito e insegnamento a tutti e noi e in particolare alle nuove generazioni affinché non si commettano mai più simili errori”. E’ quanto detto dal sindaco di Agnone, Michele Carosella durante il suo intervento prima che venisse scoperta la targa commemorativa sulla facciata dell’ex campo di concentramento di ‘San Berardino’.
Un ringraziamento particolare è andato al professor Francesco Paolo Tanzj, docente presso il liceo Scientifico di Agnone, che nel 1998, insieme ai suoi ragazzi, dopo approfondite ricerche, interviste e documenti dell’epoca, riportò alla luce quanto avvenne ad Agnone tra il ’40 e ’43. Una pagina di storia oscura che in molti nella famosa cittadina delle campane ignoravano.
All’evento presente anche Alessandra Landi dell’associazione ‘Sucar Drom’ e referente del progetto ‘Memors’.
“Senza di lei e il suo impegno – ha aggiunto il sindaco Carosella – non saremmo mai riusciti a districarci tra il ginepraio di pratiche burocratiche che vigono in Italia e che hanno rischiato di farci desistere dall’organizzare la manifestazione odierna”.

Pubblicato da altomolise.net il 08/04/2013

domenica 7 aprile 2013

Rom e Sinti: il genocidio dimenticato


Copertina del libro di Carla Osella, "Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato"Il volume di Carla Osella «Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato», edito da Tau, narra le storie raccolte durante un viaggio, lungo quarantamila chilometri, tra i campi di sterminio
A malie Reinhardt, prima di cinque figli di una famiglia sinti, ha solo nove anni quando suo padre e sua madre vengono arrestati e condotti nel campo di concentramento di Dachau. È il 1938 e la Germania nazista conduce già da qualche anno una politica di persecuzione verso quelli che chiama «Zigeuner», gli zingari. Amalie e i suoi fratelli sono portati nel collegio di San Giuseppe a Mulfingen, nel sud della Germania. La struttura ospita 41 piccoli sinti che, in un primo momento, vengono risparmiati allo sterminio. Non si tratta qui però di buon cuore nazista: i bambini sono le cavie della giovane ricercatrice Eva Justin e del suo tutore, il dottor Robert Ritter.
I due sottopongono i piccoli a test pseudo-scientifici allo scopo di determinarne l’inferiorità razziale. Nel 1943 la Justin arriva alla conclusione che rom e sinti sono pericolosi per la razza ariana in quanto portatori del pernicioso gene del nomadismo e ne consiglia quindi la sterilizzazione forzata. La giovane tedesca consegue il dottorato in antropologia e i bambini, ormai inutili, sono deportati ad Auschwitz.
Trentacinque di loro sono gasati poco dopo l’arrivo al campo di concentramento, Amalie Reinhardt viene invece giudicata abile al lavoro e viene spostata nel lager femminile di Ravensbrück, dove sopravvive allo sterminio.

Pellegrinaggio del dolore

La vicenda della piccola sinti è una delle tante storie raccolte nel nuovo libro di Carla Osella Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato, pubblicato da Tau Editore (pp. 246, euro 15). Il «pellegrinaggio nel dolore di una popolazione», così come lo definisce Osella, inizia nel 2005 e porta l’autrice e la sua assistente Francesca Sardi sui luoghi dello sterminio rom e sinti.
È un viaggio lungo quarantamila chilometri che attraversa venti paesi: dalla Francia all’Olanda, dalla Polonia all’Ucraina. Per sette lunghi anni, Osella e Sardi visitano campi di concentramento, ghetti ma anche centri di eutanasia e foreste, luoghi in cui rom e sinti vennero imprigionati, uccisi o gravemente menomati dagli esperimen-ti condotti sui loro corpi dalla follia nazista.
Dal ghetto di Lódz, al lager di Mauthausen, passando per il collegio di San Giuseppe, filo rosso della ricerca sono le testimonianze dirette dei sopravvissuti o di persone che, indirettamente hanno assistito al genocidio, spesso dimenticato, del «popolo del vento».
Uno sterminio dalle cifre incerte: i dati ufficiali parlano di seicentomila persone ma c’è chi sostiene che, a fine guerra restassero solo due milioni e mezzo dei dieci milioni di rom e sinti presenti in Europa prima dell’avvento nazista.
«Il libro – afferma Carla Osella – è il mio omaggio al popolo invisibile con il quale ho scelto di condividere la storia della mia vita».
Raccontare del genocidio è per l’autrice un «modo per far parlare questa popolazione»; la peculiarità di Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato è infatti quella di dare voce, in prima persona, ai testimoni diretti dello sterminio. «Di solito siamo noi a parlare di loro – dice Osella – mentre questa volta ho voluto che fossero loro a raccontarsi».
Carla Osella, presidente di «Aizo rom e sinti» conosce bene il popolo per e con il quale lavora da quarantun anni. L’occasione di conversare con la gagè (la non zingara) che i rom e i sinti chiamano «bibì Carla», la zia Carla, è data da una serata di presentazione dell’ultimo libro a Trento.
Un libro che si scopre avere radici nel suo passato familiare.
«Vengo da una famiglia antifascista – racconta con l’allegro accento torinese che la contraddistingue -. Mia madre è di Boves, la città incendiata dai nazisti. Mia nonna era antifascista ed i miei zii a Cuneo si rifiutavano di levare dalle camice il simbolo dell’Azione Cattolica. Per questo ciclicamente le camice nere li portavano dietro ai portici e gli facevano ingerire olio di ricino. I racconti di mia madre parlavano spesso di questo antifascismo che ho poi respirato anche nella facoltà di sociologia dove ho studiato, che a quei tempi era ’rossa’. L’antifascismo unito alla simpatia nei confronti del popolo con il quale convivo da quarantun anni ha fatto nascere l’idea di un libro che portasse alla luce i ricordi ed i fatti legati al genocidio quasi sconosciuto di questo popolo che ha il diritto di essere riconosciuto nella proprio dignità».
Il legame di Carla Osella con i sinti e con i rom nasce ai tempi della giovinezza ed è veicolato dall’immagine che ne danno i genitori. «I miei erano commercianti e i sinti di quell’epoca erano nostri clienti. I miei genitori me li hanno sempre presentati in maniera positiva, come persone da non discriminare. In realtà – continua poi a raccontare – da giovane sognavo di fare l’avvocato in Sudafrica per difendere i neri; invece, mi sono fermata qui in Italia ed ho iniziato a lavorare con i sinti, dapprima con i bambini e poi con gli adulti».
Entrare in contatto con questo popolo non è stato facile: «Ero una ragazza giovane che doveva riuscire a penetrare un mondo maschilista. La mia fortuna è stata quella di fare sempre riferimento alle donne, le mie prime alleate. Chi fa volontariato con i sinti e con i rom di solito va dagli uomini, dai capifamiglia. Ma io venivo dal sessantotto universitario e mi sono alleata con le donne. Quando hanno visto che entravo nel loro mondo in punta di piedi, che volevo conoscerle e fare qualcosa mi hanno accettata. Fondamentale però è stato anche abitare con loro, andare a raccogliere il ferro con loro, condividere insomma il loro vissuto quotidiano».

Intolleranze quotidiane

Quando le si chiede cosa bisognerebbe fare per entrare in contatto con questo popolo, Osella scuote il capo: «Prima di tutto bisognerebbe cambiare mentalità. Oggi viviamo un aumento di intolleranza nei confronti non tanto dei sinti italiani quanto dei rom rumeni, che arrivano a migliaia. Bisognerebbe essere capaci di accoglierli così come sono, concedere loro dei diritti, ma anche richiedere dei doveri. Se assistiamo a delle situazioni degradanti è anche perché alcuni comuni hanno portato avanti delle linee di assistenzialismo anziché cercare di risolvere il problema alla base».
E a livello istituzionale? «Il primo passo dovrebbe essere quello di concedere la cittadinanza perché ci troviamo di fronte a persone nate in Italia ma senza permessi di soggiorno, persone che sono senza documenti, quindi inesistenti. Poi bisognerebbe puntare sul lavoro, sui giovani e sui corsi di qualificazione: una certa autonomia lavorativa permetterebbe loro di non far proliferare attività illegali. E poi c’è il problema delle abitazioni: in Italia abbiamo vere e proprie favelas. Molti pensano che i rom siano delle persone libere, ma è una gran bugia: chi vive in baracca, chi vive tra i topi non è mai una persona libera».
Le richieste di Carla Osella difficilmente trovano ascolto a livello politico. «Tuttavia ci stiamo accorgendo che questa campagna elettorale è diversa dalle altre: per fare un nome tra tanti, Berlusconi non ha ancora attaccato le minoranze. Monti non è interessato al tema. Sono più presi a farsi la guerra l’un l’altro. Bersani è stato l’unico a parlare a favore degli immigrati. Questa è la prima campagna, da quindici, vent’anni in cui gli stranieri non vengono utilizzati come carta per guadagnare voti. Persino la Lega Nord si sta moderando, forse perché deve prima leccare le ferite di casa propria».

I pogrom delle periferie

Per cambiare veramente qualcosa servirebbe tuttavia l’intervento dei singoli, della cosiddetta gente comune che, e Osella ne è convinta, ha il potere di far prendere una direzione nuova alla storia. «Provoca rabbia vedere come troppo pochi si occupino di questo problema. Anche i comuni stessi potrebbero fare molto di più. L’Europa ha stanziato settecento milioni di euro per la gestione dei rom e dei sinti in Italia. Io guardo i campi dove sono costretti a vivere e mi chiedo: che fino hanno fatto questi soldi?» Secondo Osella basterebbe avere il coraggio di parlare per modificare una situazione di intolleranza che in Italia sfocia spesse volte in veri e propri episodi di odio etnico, come il rogo della Cascina della Continassa, seguito alle false accuse di una sedicenne che aveva raccontato al fratello di essere stata stuprata da alcuni rom, raccontato da Osella e da Mara Francese nel libro-diario Il Pogrom della Continassa, edito da Sabbiarossa nel 2012.
Una vita, quella di Carla Osella, passata dunque a dar voce a quel popolo di ultimi, di dimenticati che spesso passano sotto silenzio, così come è passato sotto silenzio il loro genocidio. Spesso vittime di un’insofferenza diventata odio i sinti ed i rom vengono discriminati e condannati in quanto popolo. «Bisognerebbe non fare di tutta l’erba un fascio – dice ancora. E avere la grandezza di Ceija Stojka (scomparsa qualche giorno fa, ndr), rom austriaca che ho intervistato per il mio ultimo libro, che, sopravvissuta all’inferno di Bergen-Belsen vivendo nascosta tra le cataste di corpi morti, parlando dei nazisti ha ancora il coraggio di dire ’io non mi sento di odiarli, perché sono uomini come noi’».

 L’AUTRICE · La «gagè» che vive in luoghi abusivi.

 Nata a Torino Carla Osella è pedagogista, pubblicista e scrittrice. Nel 1971 inizia a vivere con un gruppo di sinti piemontesi nei siti abusivi. Sono proprio loro a chiederle di fondare un sindacato. Osella dà allora vita assieme a 431 famiglie sinte alla «Aizo rom e sinti», un’associazione di volontariato che intende operare per la tutela dei diritti civili e politici del popolo Rom e Sinto. Ne diventa presidente e, nel 1978, inizia a pubblicare il bimestrale di antropologia e politica «Zingari Oggi», al quale segue la collana «Quaderni Romani». Nel 2012 è eletta, quale unica gagè, alla «Commissioner for Holcaust» nell’ambito del Congresso Mondiale della Popolazione Rom (Wro). Carla Osella, che i rom e sinti di diversi paesi chiamano «la bibì», la zia, lavora da quarantun anni a stretto contatto con il popolo al quale ha dedicato numerosi libri. Fra questi, si segnalano: «I rom. Il popolo che segue il sole» (2009), edito da Effatà; «Il Pogrom della Continassa. I rom a Torino» (2012), scritto a quattro mani con Mara Francese ed edito da Sabbiarossa; «Rom e sinti. Il genocidio dimenticato» (2013), pubblicato da Tau Editore.

Rom: Migrantes, in Italia cresce ostilita' e rifiuto


Asca.it



(ASCA) - Roma, 5 apr - In Italia, in questi ultimi dieci anni, e' cresciuta ''l'ostilita' e il rifiuto'' verso il popolo Rom. La denuncia mons. Giancarlo Perego Direttore generale della Fondazione Migrantes in occasione della Giornata Internazionale dei Rom e dei Sinti, che si celebra l'8 aprile. Proprio un'indagine decennale sui valori degli italiani, pubblicata recentemente dall'Universita' Cattolica, si fa notare da Migrantes, ha sottolineato ''questa crescente distanza nei confronti dei Rom, persone che il maggior numero degli italiani non vorrebbe come vicini di casa''. ''Il popolo rom in Italia e' un popolo di bambini, ragazzi e giovani. Le famiglie rom sono aperte alla vita. L'anziano rom e' al centro della vita familiare e sociale. - fa notare, invece, mons. Perego - La Chiesa che cammina con i Rom, e' chiamata a riconoscere questo tesoro di vita e, nello stesso tempo, aiutare la citta' e la societa' a salvaguardarlo''. ''Troppe volte ancora, anche nel nostro Paese, i figli dei Rom, anziche' essere riconosciuti e tutelati sono esposti ad adozioni arbitrarie, strappati alle loro famiglie. Troppe volte - aggiunge il responsabile di Migrantes - gli sgomberi non tutelano il diritto alla casa e alla scuola dei minori. Troppe volte le famiglie e i bambini rom non hanno pari opportunita'''.

Asca.it – ven 5 apr 2013